Ci rivedremo a Filippi.

2019

Matteo Innocenti dal catalogo "Vis à Vis Fuoriluogo 22" realizzato in occasione delle residenze d'artista nei comuni di Lucito e Roccavivara.

Edizioni Limiti inchiusi.

 

“Ci rivedremo a Filippi”, così la frase che lo spettro di Cesare rivolge in sogno a Bruto - il quale è ormai ossessionato dalla partecipazione alla congiura contro il dittatore - prevedendone la futura sconfitta mortale presso la città Macedone. L'episodio di immaginazione viene riportato dallo storico Plutarco nelle Vite parallele (fine I - inizio II secolo d.C.), e poi ripreso da Shakespeare nel Giulio Cesare (1599 ca.); l'espressione nel tempo è diventata di uso comune, un motto per minacciare, non senza una nota scherzosa, una resa dei conti che dovrà infine giungere.

Antonio Pettinicchi, tra i maggiori artisti molisani del Novecento, originario di Lucito, titolò così uno dei suoi quadri più importanti, denso di riferimenti politici - in tutta la sua pittura elementi legati al luogo di origine, alle figure popolane, alle proprie vicende biografiche vengono trasfigurati da uno disegno molto incisivo, spesso duro, e da un cromatismo talmente ricco di sfumature da restituire un effetto al limite dell'allucinatorio.

Paolo Borrelli e Fausto Colavecchia si “appropriano” della citazione, omaggiando al contempo il pittore lucitese, per proporne, a livello formale, una differente versione: un'insegna luminosa al neon installata presso la porta d'ingresso al centro storico del paese, in prossimità del palazzo marchesale; un'apparizione che riverberando accoglie le persone in arrivo e accompagna quelle che escono. La scritta, di un rosso intenso, si mostra all'inizio come un elemento differente rispetto al contesto, sia per la componente formale che per quanto esprime, ma l'effetto straniante è breve, velocemente la sua presenza viene compresa da chi la osserva secondo una propria, possibile, interpretazione. La frase adesso è lì, per delle ragioni, e ci sta dicendo qualcosa. 

Il ricorso alla scrittura al neon nel contesto artistico rimanda a una parte recente della storia. L'artista di riferimento in questo caso, per la coscienza critica che associò all'uso, è Joseph Kosuth, alla metà dei Sessanta primo teorizzatore dell'arte concettuale - secondo cui l'arte è entrata nella fase in cui cessa di rappresentare per interrogarsi su sé stessa, facendo prevalere il pensiero sul piacere estetico; negli stessi anni altri artisti   si confrontarono con lo stesso strumento, da Bruce Nauman in chiave più provocatoria e politica, a Dan Flavin come stimolo a interrogarsi sulla percezione, fino alle serie di Fibonacci di Mario Merz. Come sempre accade in arte, la ricorrenza di un elemento lo fa diventare parte integrante del repertorio di cui gli autori nel tempo potranno valersi.

Mi interessa qui sottolineare che l'apporto del linguaggio scritto in arte, in modo generale - quindi non è solo inerente ai neon, si pensi a una casistica molto più ampia che va dalle proiezioni di Jenny Holzer alle frasi in vinile di Lawrence Weiner - spazia tra gli estremi della dichiarazione perentoria, veri e propri “statements”, all'evocazione poetica, senza che ciò escluda contatto e compenetrazione tra i due.

È appunto tale modalità duale a caratterizzare l'installazione di Borrelli e Colavecchia. Andando oltre la fissità dell'enunciato univoco, la frase “Ci rivedremo a Filippi” non si esaurisce in uno specifico significato: la sua traduzione resta volutamente ampia. Tra le varie, considerando le criticità del periodo storico attuale, avanzo l'ipotesi che si tratti di un indizio per qualcosa a venire. Come a dire che prima o poi si fanno sempre i conti con le conseguenze delle proprie azioni, sia a livello individuale che collettivo.   

Valutando il rapporto con il presente e la proiezione verso il futuro, nonché la permanenza dell'opera nel luogo, mi pare interessante il confronto continuo che il neon stimolerà. A che cosa ci farà pensare tra qualche anno, con il cambiare della società? Ogni segno porta con sé un destino, se lo costruisce con il suo essere manifesto, questa è una chiara circostanza in cui un'opera resta aperta alle varianti interpretative che gli eventi via via suggeriranno.